
Tobor
TOBOR
“La missione sul nuovo pianeta è andata a buon fine”, così recitava la voce robotica sullo schermo televisivo grande quanto l’intera parete della casa. Il proprietario, Sig. Tobor, come di consueto, si era svegliato presto e sorseggiava la sua tazza di caffè, distratto dalle numerose notifiche che già avevano intasato il blocco schermo del cellulare.
Era un uomo sulla cinquantina, non molto alto e snello, quasi calvo e non molto piacente, di carattere burbero e molto introverso.
Aveva avuto un’infanzia difficile. Sin dalla più tenera età, rimasto orfano, venne cresciuto da due robot che lo accudirono esclusivamente nei bisogni fisici.
Questi “genitori” erano instancabili, ma privi di emozioni, pertanto non furono in grado di insegnare al bimbo i sentimenti che solitamente provano i suoi coetanei, come amore, compassione, gioia, paura.
Ricevendo un’educazione così diversa, non conosceva neppure il significato dell’amicizia.
I “genitori” erano stati programmati per educarlo, pertanto Tobor non frequentò mai alcuna scuola, luogo in cui nascono le prime simpatie e relazioni con gli altri.
La conseguenza fu che il ragazzo trascorse l’adolescenza in completa solitudine. Gli unici contatti avvenivamo sui social.
Passava molte ore chiuso in camera e creava diversi nuovi profili sui vari network, identificandosi in una persona che sarebbe voluta essere. Tutto questo allo scopo di incrementare le amicizie virtuali.
Giorno dopo giorno diventava sempre più dipendente da questa vita e si isolava dal mondo reale, convinto che fosse questo l’unico sistema per sentirsi vivo in una società che non lo considerava.
Tobor abitava in una tetra, grigia, rumorosa e trafficata città, rovinata dall’inquinamento e dal totale disinteresse dei suoi abitanti.
Quello che nella sua famiglia veniva vissuto come normalità, venne stravolto da ciò che vide affacciandosi alla finestra: gruppi di bambini gioiosi che ridevano e scherzavano tra loro, controllati a distanza da amorevoli adulti.
I due robot-genitori erano programmati per accudirlo fino al compimento della maggiore età. Così andò a vivere da solo in una casa tecnologicamente all’avanguardia, all’interno della quale lavorava on-line come assistente virtuale.
In età adulta la dipendenza da social peggiorò. Restava sveglio ad aggiornare il suo profilo, a rispondere ai direct e al mattino era deconcentrato, irascibile, stanco ed affaticato.
Un giorno, esasperato dalla costante solitudine, decise di farsi clonare, in modo da poter condividere il resto della propria vita con qualcuno.
Si recò quindi in un centro specializzato in clonazione, dove venne sottoposto a diversi esami e test. Gli esito lo sconvolsero: gli comunicarono che non poteva essere clonato in quanto non era un essere umano, bensì un robot.
Elisa Vaccari
2^ a
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